
Robot, intelligenza artificiale e cobot: tutto bello, ma è ancora l’uomo il centro del lavoro in carrozzeria. Oggi si fatica ad “arruolare” giovani: abbiamo chiesto il perché a un esperto di impresa e di gestione del lavoro
Fabrizio Cotza, Imprenditori Sovversivi, è una presenza abituale su Car Carrozzeria. Ci piace ospitarlo perché ha un approccio ai temi che coinvolgono i carrozzieri che esce dai binari canonici della consulenza. Del resto parliamo del fondatore dell’Accademia Sovversiva, che per “statuto” deve essere lontana dagli schemi classici. In più Fabrizio tiene ancora l’uomo al centro, anzi suggerisce come farlo restare al centro dell’attività e come preservare il suo benessere quotidiano.
Giovani e lavoro: cosa cercano secondo la tua esperienza? La stabilità è ancora un valore (entro in una azienda e ci resto tutta la vita)?
«Le nuove generazioni hanno fatto di necessità virtù. Poiché il mondo del lavoro è sempre più fluido hanno accettato l’idea di non avere contratti stabili e sicurezze, fino ad arrivare al punto che sono i primi a non volere legami “per tutta la vita” anche quando gli vengono offerti. Come sempre non si può generalizzare, ma parliamo di una larga maggioranza di ragazzi e ragazze che dopo qualche anno spesso decidono di sperimentare cose nuove, di cambiare azienda o tipologia di lavoro. Non necessariamente perché si trovano male o guadagnano poco, ma per imparare cose nuove o vivere esperienze professionali diverse».
Cosa dovrebbe sentire dentro un giovane che si approccia al mondo della carrozzeria?
«Partiamo dal presupposto che il lavoro in carrozzeria oggi non è lo stesso di vent’anni fa, quindi sono cambiate anche le dinamiche interne e le competenze richieste. In questo nuovo contesto un giovane dovrebbe essere consapevole che il suo lavoro sarà sempre meno manuale e sempre più di testa. Purtroppo poche carrozzerie riescono a comunicare questo cambiamento in maniera efficace e soprattutto a coinvolgere un giovane su altri fattori più motivazionali, che un tempo era il gusto di fare un lavoro artigianale specializzato ed oggi invece ha molto più a che fare con la capacità di prendere decisioni, imparare continuamente cose nuove e sapersi relazionare con gli altri. Quelle che in gergo vengono chiamate “competenze trasversali”. Quindi, per rispondere alla tua domanda, un giovane dovrebbe sentire che può crescere professionalmente, che c’è qualcuno che crede in lui e che avrà il supporto di un responsabile che saprà tirare fuori anche le sue abilità più nascoste. Superando quel primo muro di apatia che spesso sembra caratterizzare molti dei nostri ragazzi, semplicemente resi così da un contesto socioculturale che li ha emotivamente appiattiti e distrutti».
Gli imprenditori della carrozzeria hanno capito questi cambiamenti dei giovani?
«Qualcuno sì, ed infatti ha puntato su loro traendone grandi soddisfazioni. Ma per farlo serve avere il giusto approccio, tanta pazienza e la consapevolezza che non sono più i soldi o la sicurezza del posto di lavoro a motivare i giovani, bensì un ambiente stimolante, positivo, con grandi valori umani. Se manca tutto questo l’inserimento sarà sempre difficoltoso, e ancora di più attirare giovani con grandi potenzialità».
Quali possono essere i comportamenti che demotivano un nuovo assunto?
«E’ demotivante tutto il vecchio approccio, quello con il quale è cresciuta la fascia d’età che va dai 40 anni in su. Fatta di ordini impartiti senza un vero coinvolgimento, di ruoli che non si evolvevano perché c’era il “vecchio responsabile” intoccabile e spesso scontroso, di comunicazioni caotiche e di flussi operativi senza organizzazione. La vecchia generazione era molto più tollerante, perché l’idea di cambiare lavoro sembrava quasi la manifestazione di un fallimento personale. Oggi no, quindi per molto poco un giovane comunica che se ne va, spesso senza neppure dire la vera motivazione».
Quali possono essere i segnali che il nuovo assunto è nel posto sbagliato?
«Dipende dal nuovo assunto, non si può generalizzare. E dipende dal contesto in cui si trova a lavorare. Una persona valida pretende tanto, quindi in una carrozzeria gestita ancora in maniera approssimativa potrebbe sentirsi nel posto sbagliato. Così come il collaboratore con bassi standard qualitativi potrebbe sentirsi a disagio in un’azienda superorganizzata ed efficiente. Purtroppo il punto di vista è spesso soggettivo, ed è per questo che viene chiamata una figura esterna tipo la mia, per capire le vere cause del malcontento o della scarsa efficienza dei collaboratori».
Delegare è un valore di inclusione oppure mette paura alla forza lavoro?
«Anche in questo caso dipende. Qualche anno fa ho fatto una ricerca su un campione di circa 400 collaboratori, ed ho scoperto che i migliori tra loro avrebbero voluto maggiore delega (che non significa necessariamente maggiore lavoro ma maggiore libertà decisionale). I collaboratori meno performanti invece detestano avere altre responsabilità, quindi se si commette l’errore di metterli a capo di un reparto, magari semplicemente per anzianità o perché sono bravi tecnicamente a svolgere una mansione, allora si farà un grande errore, che l’imprenditore pagherà a caro prezzo».
Hai appena pubblicato un libro, “Cosa NON farò da grande”, che stimola a cambiare lavoro se non si è soddisfatti. Ma non è un pericolo per gli imprenditori un tale stimolo?
«La cosa peggiore che possa capitare in un matrimonio è avere due coniugi che stanno assieme senza amarsi più, ma solo per abitudine o per paura di rimanere soli. Allo stesso modo avere in azienda collaboratori “disinnamorati” produce danni e gravi inefficienze. Meglio lasciarsi e darsi la possibilità di trovare un nuovo amore, sia per il collaboratore che per l’imprenditore. All’inizio, proprio come per una coppia, sarà triste lasciarsi, ma col tempo si capirà che era la cosa migliore per entrambi».
E un imprenditore infelice della sua azienda può prendersi il lusso di venderla? Oppure fare impresa è un dovere morale?
«Chiunque abbia avuto un titolare scontento, demotivato o costretto a portare avanti un’azienda che lo rende infelice sa bene che lavorargli accanto diventa un inferno. Sarebbe molto più saggio fare in modo che quella azienda venisse acquistata da chi ha voglia di portarla avanti con passione. Il dovere morale dell’imprenditore è assicurarsi che i suoi collaboratori mantengano il posto di lavoro anche in caso di vendita dell’azienda e che possano lavorare nelle condizioni migliori».
Ho letto il tuo libro: è anche un manuale per imparare a migliorare la propria posizione di lavoro senza fare strappi. Un effetto collaterale della scrittura oppure un suggerimento più facile da praticare?
«In qualsiasi situazione lavorativa ci sono sempre margini di miglioramento. Prendersi responsabilità del proprio “pezzettino” da migliorare significa fare poi una scelta più consapevole, senza rimpianti o rimorsi, nel caso poi si decida di cambiare lavoro. Il più delle volte, quando ho guidato le persone a trasformare quelle parti negative del proprio lavoro, la voglia di “scappare” è diminuita oppure è cessata del tutto. Quindi è per questo che nel mio libro suggerisco di trasformare in meglio quello che già si sta facendo piuttosto che sperare di trovare il “lavoro perfetto”».
Tu hai fatto la scelta giusta su cosa fare da GRANDE? Come ci sei arrivato?
«Faccio quello che ancora oggi mi permette di evolvermi come persona, prima che come professionista, migliorando la qualità di vita dei miei clienti, spesso schiacciati da un sistema che sembra non dare scampo e che prosciuga tutta l’energia vitale. Il giorno in cui questo non dovesse appassionarmi più o mi rendessi conto che non sono in grado di dare questo tipo di risultati credo che non avrei dubbi a lasciare tutto per andare a fare altro. Ma per adesso dovrete ancora sopportarmi ».
a cura di Renato Dainotto - Foto Photo-R
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